venerdì 25 ottobre 2013

LA VOCE DELLE DONNE: LA TESTIMONIANZA DELLA INERME FLAVIA STUPRATA SUL POSTO DI LAVORO

Di Silvana Viola
L’intervista è del 25 novembre 2012. Oggi però diventa attuale perché riteniamo aprire uno spazio per dar voce alle donne, le uniche e  vere vittime di violenza psicologica e sessuale. A Flavia è andata bene. E’ riuscita a sopravvivere. Non per questo è un numero in meno per le fredde statistiche. Ha rischiato la vita come quelle che muoiono ogni giorno dopo aver detto no al rapporto sessuale e allo stupro. E’ morta però dentro per anni per non aver denunciato.  Flavia (nome di fantasia per tutelarne la privacy) che è stata violentata dal suo capo. In una fredda serata di novembre le si spezzarono i sogni ritrovati dopo un altro stupro subito in età giovanile. Noi abbiamo sentito dalla sua viva voce quello che le è capitato qualche anno fa.
Flavia come inizia la tua storia. Quando sei finita nelle mani del tuo aguzzino?
Da tempo mi ero già accorta che il mio capo voleva avere un rapporto sessuale con me. Poi però ho pensato tra me e me: mi sbaglio. Mi sto fissando. Che cavolo mica possono essere tutti come il mio ex che mi ha violentato. Può darsi che mi sto allarmando troppo. Invece avrei dovuto ascoltare quella vocina, avrei dovuto fidarmi di me stessa e non sottovalutarmi come ho sempre fatto in vita mia.
Che successe dopo?
In un buio giorno di novembre, erano circa le diciassette quando palesò il suo interesse ad avere un rapporto sessuale con me. Ma non era esplicito, parlava a monosillabi e il suo sguardo si faceva sempre più cupo e minaccioso. Nella mia mente la paura intanto prendeva il sopravvento. Nel profondo sapevo che potevo diventare la sua vittima. Però non mi muovevo non osavo fare un passo tanto lo spavento che si era impadronito di me. Dopo qualche minuto avvenne. Tutto di colpo mi accorsi di essere rimasta sola con lui. Colleghi e amici erano andati via, a trovare i parenti defunti. Era la serata del primo novembre del 2007. Non la dimenticherò mai. Pochissime ore dopo la morte di Meredith a Perugia. Io però non ho avuto lo stesso coraggio di ribellarmi, di morire. Quando mi ha chiesto di spogliarmi ho fatto finta di non capire. Le mie gambe si sono mosse senza che la mente lo chiedesse. Andavano verso la porta d’ingresso. La mia camminata però era lentissima, quella porta sembrava davvero molto molto lontana.
Perché non sei scappata? Ti è mancato il coraggio o è successo qualcos’altro?
Lui, il mio capo, si è reso conto che potevo scappare. I suoi passi però sono stati più veloci dei miei. Si è precipitato vicino alla porta della sua stanza, dove mi aveva attirata con una scusa, e l’ha chiusa a chiave. L’oggetto metallico che mi poteva dare la libertà se lo mette nei pantaloni. E con il suo sorriso sempre più beffardo mi ha detto: scappa se hai il coraggio ora. Sapevo di non poterlo fare. Ero cosciente di essere in una gabbia dalla quale mi avrebbe tirato fuori solo lui. E allora ho cominciato a pensare a come sopravvivere.
Una battaglia di cervello allora? Come hai fatto a sopravvivere?
Quando mi chiese di stendermi sulla sua scrivania lo feci senza protestare. Come non mi ribellai nemmeno quando si avventò sopra di me e mi sbottonò il pantalone che avevo addosso. Ero un corpo di pietra, non osavo muovermi. A un certo punto la mia testa era altrove, pensava alla povera Meredith appena morta a Perugia. Sapevo che non volevo fare la sua fine. E quando le mani del mostro arrivarono a tirarmi giù la mutandina ormai non c’ero più. Tornai nel mio corpo soltanto quando mi accorsi che mi aveva sollevato la maglia e mi stava slacciando il reggiseno. Solo in quel momento ebbi il coraggio di esprimere la mia volontà. Gli chiesi di non violentarmi, gli dissi che non volevo fare sesso col mio capo.
Quale fu la sua reazione? Come si impose con te?
Non mi picchiò, non provò neppure a legarmi. Sapeva in fondo a se stesso che mi avrebbe avuta. Che sarei stata sua. Fece di peggio. Annientò le mie resistenze psicologiche. Mi disse: ma quale stupro e stupro. Tu sei pazza e nessuno ti crederà se mi denunci. Ma poi che denunci? Mica ti ho picchiato, mica ti ho strappato i vestiti? Ti prenderanno per quella che sei: una pazza. Fu allora che capì di aver vinto. Fece tutto con calma mentre dai miei occhi uscivano tante lacrime. Lui però non le vide. Non sentì il rumore del mio pianto. Si abbassò i pantaloni e poi il boxer. Ebbe anche il coraggio di usare un preservativo. Mi allargò le gambe e cominciò a spingere. La mia voce flebile tornò a un certo punto. Gli chiesi  di non farmi del male. E lui non mi rispose, non disse niente. Fino a quando non lo sentii arrivare. Fino a quando non mi ringraziò  per il servizio fatto. Per lui non fu altro che un incontro sessuale. Per me fu la morte, quella dell’anima e del cuore.
Ti convinse lui a non denunciare i fatti o fu una tua decisione?
Siccome mi aveva violentato l’anima io ero convinta che quanto successo era colpa mia e soltanto mia. Pensavo che nessuno mi avrebbe creduta. Non avevo prove sufficienti, nessun segno evidente di lotta se non due lividi che mi procurò sulle gambe spingendo con i polpastrelli per divaricarmele. Ma allora pensavo che non fossero sufficienti. Non c’era la prova del seme. Mi sono rivestita e ho chiesto gentilmente di andare via. Credevo di poter dimenticare ma non ci sono riuscita. Mi disse che se parlavo mi avrebbe licenziata. Ero debole economicamente e allora non parlai nemmeno per quello. Qualche giorno dopo però mi chiese ancora la stessa cosa. E io gli permisi di violentarmi ancora. Fino a quando non mi resi conto che rimanere lì mi avrebbe procurato danni psicologici irreparabili. Allora mi misi alla ricerca di un nuovo lavoro e scappai letteralmente. Senza una lettera di dimissioni e senza nemmeno ritirare l’ultimo stipendio. Lo potevo fare, lavoravo a nero per quattrocentocinquanta euro al mese. Ma solo dopo sei mesi di violenze lo capii.
Ti ha più cercata? Ha provato a mettersi in contatto con te
Lo ha fatto per due mesi con telefonate anonime al cellulare. All’inizio rispondevo e lui mi minacciava affinché non denunciassi il tutto. Poi capito il giochino non rispondevo più. Sono stata anche costretta a cambiare numero di telefono e abitazione affinché lui non mi trovasse più.
Come stai ora? Ti sei pentita di qualcosa?
Sto facendo un lungo cammino di analisi psicologica per venirne fuori. Non è facile ma so che ce la posso fare.  Ora so che non è stata colpa mia ma soltanto delle mie paure che mi hanno legata in quel momento. Il mio unico rimpianto è di non averlo denunciato. Forse lo avrebbero assolto ma almeno la gente del posto lo avrebbe visto sotto gli occhi che merita. Vorrei approfittare per lanciare un appello a chi si trova in queste condizioni: denunciate tutto e subito, avete solo sei mesi di tempo. Poi è troppo tardi e si rischia di rimanere vittime per tutta la vita.
Lo hai perdonato?  
Assolutamente no e invidio chi ci riesce. Col tempo spero di riuscire ad attuare la terapia del distacco con amore. Ma credo che sarà davvero molto difficile.

Noi auguriamo a Flavia che riesca a farcela per davvero. Sappiamo tutti che è difficile uscirne soprattutto quando il lutto non viene elaborato bene e soprattutto quando il carnefice non paga il suo conto con la giustizia.

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