Di
Silvana Viola
L’intervista
è del 25 novembre 2012. Oggi però diventa attuale perché riteniamo aprire uno
spazio per dar voce alle donne, le uniche e vere vittime di violenza psicologica e
sessuale. A Flavia è andata bene. E’ riuscita a sopravvivere. Non per questo è
un numero in meno per le fredde statistiche. Ha rischiato la vita come quelle
che muoiono ogni giorno dopo aver detto no al rapporto sessuale e allo stupro.
E’ morta però dentro per anni per non aver denunciato. Flavia (nome di fantasia per tutelarne la
privacy) che è stata violentata dal suo capo. In una fredda serata di novembre
le si spezzarono i sogni ritrovati dopo un altro stupro subito in età
giovanile. Noi abbiamo sentito dalla sua viva voce quello che le è capitato
qualche anno fa.
Flavia come inizia
la tua storia. Quando sei finita nelle mani del tuo aguzzino?
Da
tempo mi ero già accorta che il mio capo voleva avere un rapporto sessuale con
me. Poi però ho pensato tra me e me: mi sbaglio. Mi sto fissando. Che cavolo
mica possono essere tutti come il mio ex che mi ha violentato. Può darsi che mi
sto allarmando troppo. Invece avrei dovuto ascoltare quella vocina, avrei
dovuto fidarmi di me stessa e non sottovalutarmi come ho sempre fatto in vita
mia.
Che successe dopo?
In
un buio giorno di novembre, erano circa le diciassette quando palesò il suo
interesse ad avere un rapporto sessuale con me. Ma non era esplicito, parlava a
monosillabi e il suo sguardo si faceva sempre più cupo e minaccioso. Nella mia
mente la paura intanto prendeva il sopravvento. Nel profondo sapevo che potevo
diventare la sua vittima. Però non mi muovevo non osavo fare un passo tanto lo
spavento che si era impadronito di me. Dopo qualche minuto avvenne. Tutto di
colpo mi accorsi di essere rimasta sola con lui. Colleghi e amici erano andati
via, a trovare i parenti defunti. Era la serata del primo novembre del 2007.
Non la dimenticherò mai. Pochissime ore dopo la morte di Meredith a Perugia. Io
però non ho avuto lo stesso coraggio di ribellarmi, di morire. Quando mi ha
chiesto di spogliarmi ho fatto finta di non capire. Le mie gambe si sono mosse
senza che la mente lo chiedesse. Andavano verso la porta d’ingresso. La mia
camminata però era lentissima, quella porta sembrava davvero molto molto
lontana.
Perché non sei
scappata? Ti è mancato il coraggio o è successo qualcos’altro?
Lui,
il mio capo, si è reso conto che potevo scappare. I suoi passi però sono stati
più veloci dei miei. Si è precipitato vicino alla porta della sua stanza, dove
mi aveva attirata con una scusa, e l’ha chiusa a chiave. L’oggetto metallico
che mi poteva dare la libertà se lo mette nei pantaloni. E con il suo sorriso
sempre più beffardo mi ha detto: scappa se hai il coraggio ora. Sapevo di non
poterlo fare. Ero cosciente di essere in una gabbia dalla quale mi avrebbe
tirato fuori solo lui. E allora ho cominciato a pensare a come sopravvivere.
Una battaglia di
cervello allora? Come hai fatto a sopravvivere?
Quando
mi chiese di stendermi sulla sua scrivania lo feci senza protestare. Come non
mi ribellai nemmeno quando si avventò sopra di me e mi sbottonò il pantalone
che avevo addosso. Ero un corpo di pietra, non osavo muovermi. A un certo punto
la mia testa era altrove, pensava alla povera Meredith appena morta a Perugia.
Sapevo che non volevo fare la sua fine. E quando le mani del mostro arrivarono
a tirarmi giù la mutandina ormai non c’ero più. Tornai nel mio corpo soltanto
quando mi accorsi che mi aveva sollevato la maglia e mi stava slacciando il
reggiseno. Solo in quel momento ebbi il coraggio di esprimere la mia volontà.
Gli chiesi di non violentarmi, gli dissi che non volevo fare sesso col mio
capo.
Quale fu la sua
reazione? Come si impose con te?
Non
mi picchiò, non provò neppure a legarmi. Sapeva in fondo a se stesso che mi
avrebbe avuta. Che sarei stata sua. Fece di peggio. Annientò le mie resistenze
psicologiche. Mi disse: ma quale stupro e stupro. Tu sei pazza e nessuno ti
crederà se mi denunci. Ma poi che denunci? Mica ti ho picchiato, mica ti ho
strappato i vestiti? Ti prenderanno per quella che sei: una pazza. Fu allora
che capì di aver vinto. Fece tutto con calma mentre dai miei occhi uscivano
tante lacrime. Lui però non le vide. Non sentì il rumore del mio pianto. Si
abbassò i pantaloni e poi il boxer. Ebbe anche il coraggio di usare un
preservativo. Mi allargò le gambe e cominciò a spingere. La mia voce flebile
tornò a un certo punto. Gli chiesi di non farmi del male. E lui non mi
rispose, non disse niente. Fino a quando non lo sentii arrivare. Fino a quando
non mi ringraziò per il servizio fatto. Per lui non fu altro che un
incontro sessuale. Per me fu la morte, quella dell’anima e del cuore.
Ti convinse lui a
non denunciare i fatti o fu una tua decisione?
Siccome
mi aveva violentato l’anima io ero convinta che quanto successo era colpa mia e
soltanto mia. Pensavo che nessuno mi avrebbe creduta. Non avevo prove sufficienti,
nessun segno evidente di lotta se non due lividi che mi procurò sulle gambe
spingendo con i polpastrelli per divaricarmele. Ma allora pensavo che non
fossero sufficienti. Non c’era la prova del seme. Mi sono rivestita e ho
chiesto gentilmente di andare via. Credevo di poter dimenticare ma non ci sono
riuscita. Mi disse che se parlavo mi avrebbe licenziata. Ero debole
economicamente e allora non parlai nemmeno per quello. Qualche giorno dopo però
mi chiese ancora la stessa cosa. E io gli permisi di violentarmi ancora. Fino a
quando non mi resi conto che rimanere lì mi avrebbe procurato danni psicologici
irreparabili. Allora mi misi alla ricerca di un nuovo lavoro e scappai
letteralmente. Senza una lettera di dimissioni e senza nemmeno ritirare l’ultimo
stipendio. Lo potevo fare, lavoravo a nero per quattrocentocinquanta euro al
mese. Ma solo dopo sei mesi di violenze lo capii.
Ti ha più cercata?
Ha provato a mettersi in contatto con te
Lo
ha fatto per due mesi con telefonate anonime al cellulare. All’inizio
rispondevo e lui mi minacciava affinché non denunciassi il tutto. Poi capito il
giochino non rispondevo più. Sono stata anche costretta a cambiare numero di
telefono e abitazione affinché lui non mi trovasse più.
Come stai ora? Ti
sei pentita di qualcosa?
Sto
facendo un lungo cammino di analisi psicologica per venirne fuori. Non è facile
ma so che ce la posso fare. Ora so che non è stata colpa mia ma soltanto
delle mie paure che mi hanno legata in quel momento. Il mio unico rimpianto è
di non averlo denunciato. Forse lo avrebbero assolto ma almeno la gente del
posto lo avrebbe visto sotto gli occhi che merita. Vorrei approfittare per
lanciare un appello a chi si trova in queste condizioni: denunciate tutto e
subito, avete solo sei mesi di tempo. Poi è troppo tardi e si rischia di
rimanere vittime per tutta la vita.
Lo hai perdonato?
Assolutamente
no e invidio chi ci riesce. Col tempo spero di riuscire ad attuare la terapia
del distacco con amore. Ma credo che sarà davvero molto difficile.
Noi
auguriamo a Flavia che riesca a farcela per davvero. Sappiamo tutti che è
difficile uscirne soprattutto quando il lutto non viene elaborato bene e
soprattutto quando il carnefice non paga il suo conto con la giustizia.
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Che rabbia....
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